giovedì 2 febbraio 2017

Quando l’Old Trafford divenne italiano

Storia della prima finale di Champions League tutta italiana: il Milan di Ancelotti e Shevchenko, la Juventus di Lippi e Del Piero, una finale storica che segna il ritorno della Coppa Campioni nel belpaese dopo anni di delusioni europee


LA CHAMPIONS ROSSONERA: PIACENZA-UCRAINA ANDATA E RITORNO

Così diversi, così uguali. Così opposti, così complementari. Filippo Inzaghi, detto Pippo, da Piacenza. E Andriy Shevhcneko, per tutti Sheva, da Dvirkivšcyna,Kiev, Ucraina. Persone e personaggi dissimili, nomi e luoghi di nascita agli antipodi, ma destino comune: calciatori di grido, idoli delle folle e simbolo di un cammino dorato, di un percorso vincente. Che, però, è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro: la particolarità del caso specifico è servita. Quando si parla di Inzaghi e Shevchenko, bisogna parlare di funzionalità reciproca, di lavoro e gol complementari, e quindi bisogna discernere meriti e snocciolare cifre e gol: quando uno sonnecchia, l’altro si esalta. Quando uno segna a raffica, l’altro va nascondendosi. Fino ad un trionfo a tinte rossonero da ascrivere soprattutto ai due principi del gol: nei loro due volti, nelle loro due storie e nella loro complementarietà realizzativa, storica quanto impressionante, il cammino del Milan nella Champions 2002/2003.
Una Champions che, per i rossoneri, comincia prestissimo, addirittura dai preliminari, eredità della stagione balorda di Terim prima e di Ancelotti poi: lo Slovan Liberec viene domato con qualche patema, e il risultato striminzito (1-0 a San Siro e 1-2 in Repubblica Ceca) ne è la prova. Superata la paura, parte la danza del gol: a menarla, per primo, è Superpippo Inzaghi. In rapida successione, i suoi gol: Milan-Lens 2-1, doppietta; Deportivo-Milan 0-4, tripletta più Seedorf; Bayern-Milan, 1-2, con altri due gol; infine, Milan-Bayern 2-1, un gol più Serginho. Otto gol in quattro partite, sissignore, e qualificazione servita. Il resto è vera e propria accademia, con le indolori sconfitte a Lens e a San Siro col Deportivo.
Nella seconda fase a gironi (è ancora tempo di Champions da abbuffata, con un’incredibile doppia fase all’italiana), la danza cambia maestro di musica, almeno nello spartito più importante: per l’esordio arrivano a Milano le stelle del Real Madrid, campioni in carica e strafavoriti della vigilia. San Siro esplode al quarantesimo, quando Shevchenko si scrolla di dosso le polveri di un campionato mediocre e sigla il punto di un 1-0 che si trascina sino al triplice fischio. Due settimane dopo, a Dortmund, è di nuovo Superpippo l’uomo decisivo: 1-0 e Milan a sei punti.
Alla ripresa di febbraio, il Milan conferma l’abbonamento all’1-0, e la doppia sfida col Lokomotiv, così come la qualificazione, sono pratiche archiviate: Tomasson a San Siro e un rigore di Rivaldo a Mosca lanciano i rossoneri in vetta al girone e verso i quarti di finale, in barba alle due ultime sconfitte, col Real al Bernabeu e con i tedeschi a San Siro. L’urna è favorevole e disegna un Milan-Ajax che sa di storia.
Lo 0-0 di Amsterdam è solo il viatico ad una delle partite europee e rossonere casalinghe più belle ed emozionanti di sempre. Inzaghi, ancora lui: 1-0. Poi, a segno ci va Litmanen: 1-1. Il gol successivo è di Sheva, ed è la prima volta che la coppia va in rete nella stessa gara di Champions: 2-1. Ma non è finita, rete di Pienaar, a dodici giri di lancette dal termine: 2-2. Al novantunesimo, però, scoppia San Siro: lancio di Maldini, torre di Ambrosini, pallonetto di Inzaghi, tap-in di Tomasson. Sembra un’azione perfetta, e nel cuore dei tifosi rossoneri sarà per sempre così: a Piccinini quasi viene un infarto, e lo stadio e tutta la Milano rossonera esplodono di gioia per una nuova semifinale, a otto anni dall’ultima. Solo che stavolta, ad incrociare le armi rossonere, ci sono maglie, facce e colori familiari, anche troppo.
C’è l’Inter di Cuper, che dopo due gironi vissuti con la suspance che da sempre caratterizza la vita nerazzurra, è riuscita nei quarti a far fuori il Valencia. Benedetti i due gol di Vieri, uno siglato nell’andata di San Siro, chiusasi sull’1-0, l’altro messo a segno al “Mestalla”, dove Toldo protegge l’ultimo risultato utile, il 2-1 per gli andalusi. Viene servito così il derby più importante di sempre. Mancherà proprio Christian Vieri, infortunato.
L’andata, per la UEFA in casa Milan, è di una noia mortale. 0-0, rendez-vous al ritorno. Poi entra in azione il fluido magico e complementare dell’attacco-Milan: Inzaghi si appisola, Shevchenko si sveglia dal torpore e mette dentro il gol più importante della sua ancor giovane carriera. L’1-0 costringe i nerazzurri a segnare due gol: le prodezze acrobatiche di Martins, però, si fanno ammirare una sola volta sul prato di San Siro, limitando il passivo dei rossoneri a quel pareggio con gol che li proietta fino a Manchester, alla nona finale di Coppacampioni della loro storia, ad un passo da una nuova gloria. Appuntamento al 28 maggio 2003…

LA CHAMPIONS BIANCONERA: LA FURIA CECA

Cosa vuol dire essere fuoriclasse? Domanda dal sapore vagamente filosofico e mistico, alla quale ognuno risponde in maniera propria ed incontrovertibile, giusta per mille e sbagliata per duemila motivi. C’è chi dice che essere fuoriclasse è saper inventare sempre la giocata che non ti aspetti, il colpo di biliardo che fa girare gli occhi e il cuore ai propri tifosi e ben altre parti anatomiche a quelli avversi.
C’è chi dice che i fuoriclasse devono per forza essere anche giocolieri, artisti circensi, ticchete-tocchete, dribbling ubriacanti, colpi di tacco e tiri e pallonetti beffardi. Ma c’è anche chi dice che fuoriclasse si può essere grazie alla ferocia agonistica, alla grinta, ad un’abnegazione spaventosa ed alla propria capacità di fare, per quanto concerne il calcio, tutto ciò che si deve, che si può e che ti si chiede rigorosamente alla grandissima.
Ecco perché nessuno ha mai potuto obiettare granché quando, in una stessa frase, la parola “fuoriclasse” era dannatamente vicina ad un nome: quello di Pavel Nedved. Il ceco, bandiera laziale, arriva in bianconero alla vigilia della stagione 2001/2002, come grande colpo della nuova rifondazione, portata avanti nel nome di Marcello Lippi, cavallo di ritorno in panchina dopo la traumatica esperienza interista. Il ceco, dopo alcuni mesi di sonnacchioso inserimento, viene spostato sulla trequarti: intuizione geniale.
La Juve prende a volare, recupera terreno, pressa l’Inter capolista e il cinque maggio del 2002 mette in cantiere la frittata nerazzurra dell’Olimpico laziale (corsi e ricorsi…) ed uno scudetto bello ed inaspettato. Ma è dall’anno dopo che i tifosi bianconeri cominciano a capire davvero la forza e l’importanza che il biondo trequartista bianconero può arrivare a rappresentare.
2002/2003, anno juventino di proclami di double Scudetto-Champions: impensabile nel calcio asfittico del nuovo millennio, incredibile nei calendari fitti come la neve della Siberia. Eppure, la Juve, va: Nedved in campionato se la carica sulle spalle, con gol a grappoli e prestazioni da urlo. In Champions, sebbene i marcatori siano più vari, la musica non cambia: il ceco trascina e i risultati sono eccellenti. 1-1 a Rotterdam col Feyenoord, 5-0 in casa con la Dinamo Kiev, 2-0 al Newcastle per la prima tornata di sfide. Segnano tutti: Del Piero, Camoranesi, Davids, lo stesso Nedved. La Juve perde in Inghilterra, ma grazie ad una doppietta di Di Vaio abbatte il Feyenoord nel ritorno di Torino, chiudendo poi il giro con una vittoria di misura (2-1) in quel di Kiev.
Il primo posto nel girone non rende clemente il sorteggio della seconda fase, che regala in dote ai bianconeri tre squadre di alto livello: Il sempre temibile Manchester United, il forte Deportivo di Javier Irureta e il coriaceo Basilea. Il 2-2 di La Coruna è un inno al calcio e al cuore-Juve: Tristan e Makaay, con il loro uno-due inziale, sembrano affondare i bianconeri, che però, grazie ad un gol-meraviglia di un certo Sandrone Birindelli ed una rete della furia ceca, raggiungono i galiziani e rubano un punto che si rivelerà decisivo.
Tutto facile col Basilea, prima della doppia sconfitta col Manchester, che fa 2-1 all’”Old Trafford”, con gol finale ancora di Nedved e poi passeggia addirittura per 3-0 al “Delle Alpi” di Torino. Diventa decisiva, a questo punto, la sfida casalinga contro il Deportivo di Irureta, già brutalizzato a domicilio dal Milan nella prima fase. Ancora Tristan, ancora Makaay: i due punteri dei galiziani ribaltano il gol iniziale di Ciro Ferrara e rendono complicatissimo la situazione dei bianconeri, che devono solo vincere. E vincere, a questo punto, è un’impresa. Finché non entra in gioco il fattore-T: T come Trezeguet, che al minuto numero sessantatre riaccende le speranze; T come Tudor, che nei minuti di recupero fa esplodere il “Delle Alpi” con una gran botta da fuori, e mette i quarti di finale in bianconero su un piatto d’argento.
Que viva Espana, per Lippi & co.: tocca alla leggenda blaugrana, ad un Barcellona solo lontano embrione della squadra che oggi domina il mondo, ma che è sempre e comunque pericoloso. A Torino è 1-1: alla rete di Paolo Montero rispose Javier Saviola, giovane stella barcellonista. Il ritorno del Camp Nou si presenta quindi, per i bianconeri, come un rebus di difficile risoluzione. La risposta però, esiste, e porta i capelli biondi: Pavel Nedved si beve tutta la difesa catalana e buca Bonano sul primo palo, azzerando l’andata. Xavi pareggia i conti con una stilettata appena dentro l’area, aprendo alla partita lo scenario irrisolvibile dei supplementari. Poi, ecco uscire l’ambo che non ti aspetti: il 15 e il 25, Alessandro Birindelli, del quale in Spagna sono ancora probabilmente pubblicate foto “Wanted” in stile western per strada, e Marcelo Zalayeta, due apparenti carneadi divenuti improvvisi campioni che chiudono un contropiede perfetto e spalancano ai bianconeri le porte della semifinale.
Ancora Spagna, e, se possibile, una Spagna ancora più d’aristocrazia: c’è il Real Madrid. Il Real dei “Galacticos”, di Zidane, Ronaldo, Figo, Raùl, Roberto Carlos: insomma, una squadra che fa paura. Non alla Juve, però: nell’andata del “Bernabeu”, Trezeguet, nei minuti di recupero del primo tempo pareggia il gol siglato dopo ventitre giri di lancette da un Ronaldo non ancora “Gordito”. Il gol bianconero è fondamentale, e mitiga in parte anche l’effetto del secondo gol merengue, siglato da Roberto Carlos con una delle sue proverbiali fucilate mancine.
La Juventus torna da Madrid con la sensazioneche il Real è tutto fuorché imbattibile. Ed a Torino avviene il miracolo. Dodicesimo: cross dalla destra, Del Piero fa da torre e Trezeguet gonfia la rete dell’1-0. Quarantatreesimo: Del Piero riceve palla sul vertice sinistro dell’area, ubriaca di finte Hierro e Salgado e fulmina Casillas sul primo palo. Sessantottesimo: rigore per il Madrid. Occhi negli occhi, Luis Figo e Gianluigi Buffon: il pallone pesa come un macigno, ed il destro del portoghese non è potente quanto una ruspa. Il tiro è flebile come la paura, Buffon intuisce, devia e scaccia le streghe dei supplementari.
Settantatreesimo: lancio millimetrico di Zambrotta. Per chi, se non Nedved? La furia ceca si traveste da Attila, brucia tutto ciò che è intorno, erba e difensori in maglia bianca, chiudendo l’apoteosi bianconera sul 3-0. I minuti finali servono solo a rimpinguare il tabellino: alla voce gol si registra un gol dell’ex Zidane, che fa 3-1 ma non paura. Alla voce ammonizioni, però, spunta un nome che sa di beffa: Nedved, in un eccesso di zelo e foga, abbatte McManaman nel centro del campo. Diffidato più ammonito uguale squalificato. Addizione semplice, purtroppo: il grande protagonista della Champions bianconera abbandona il sogno di giocare la finale.
Una finale storica: perché la notte precedente a quella del trionfo con il Real, un’altra compagine italiana, il Milan, con il pareggio più prezioso della sua storia, ha fatto fuori l’Inter, guadagnandosi Manchester 2003. Poi è toccato alla Juventus: l’Italia si prepara alla grande festa. Per la celebrazione, appuntamento al 28 maggio 2003…

L’ATTESA

“E’ proprio vero, c’è un tempo per tutto. Un tempo per non vincere più nulla in Europa e un tempo per tornare a comandare in Europa. C’è un tempo per essere buttati fuori pur disponendo della Nazionale più forte dopo Spagna 82 e un tempo per rialzare la testa con i nostri club. Un tempo per sentirci dire dagli spagnoli come si gioca a calcio e un tempo per ricordare agli spagnoli che dal calcio italiano hanno ancora tanto da imparare”. Xavier Jacobelli, Corriere dello Sport, 15 maggio 2003.
“Ci hanno deriso per mesi e mesi, al di là di ogni ragionevole critica, come se qualche Mosè avesse consegnato soltanto a loro le tavole del pallone. E adesso li vediamo uscire dal campo in ginocchio, come i devoti della virgin macarena,storditi dalla durissima lezione incassata in quella che loro avevano definito “la patria dei trogloditi del calcio” Candido Cannavò, Gazzetta dello Sport, 15 maggio 2003.
“Quale sarà l’indice di ascolto che si registrerà in Spagna la notte del 28 maggio per la finale di Champions League?” Luca Calamai, Gazzetta dello Sport, 16 maggio 2003.
“L’importante è esserne consapevoli, fino in fondo: stiamo per vivere un evento irripetibile. Chissà quando vedremo due italiane di nuovo nella finale di Champions: possibile, certo, ma non avrà comunque il fascino struggente di questa prima volta. Manchester diventerà un lugo del mito per il nostro sport, se ne parlerà per decenni”. Franco Arturi, Gazzetta dello sport, 28 maggio 2003.
In queste citazioni, enfasi ed atmosfere di quei giorni. Vi tralasciamo dodici giorni di colonne giornalistiche che parlano di orgoglio italico rinato, di patti tra tifoserie per un gemellaggio “che mostrerà all’Europa il grado di civiltà dei tifosi italiani” (Giancarlo Padovan, Tuttosport, 27 maggio 2003), di una Manchester già “nostra” e di una rivalsa verso una platea internazionale, prevalentemente spagnola (toh!), che per mesi e mesi aveva criticato il nostro calcio, definendolo antiquato e poco spettacolare. Dodici giorni lunghi quanto una maratona. Dodici giorni che partoriscono mille e più ipotesi di formazioni, duemila e più discussioni da bar sport, e un sentimento di patriottismo che travalica i confini del tifo, almeno fino al calcio di inizio. A quel punto, quando il designato arbitro Merk darà il via alla finale dei sogni, fregare il tuo avversario, bianconero o rossonero, sarà una volontà che neanche l’orgoglio italico non sarà in grado di mascherare.

LA PARTITA

Nedved deve essere sostituito: è Camoranesi il prescelto della sorte, che in casa bianconera sveste i panni conturbanti della dea bendata per agghindarsi a mò di Marcello Lippi. L’altra dea della fortuna, quella rossonera, veste i panni ugualmente poco sensuali di Carletto Ancelotti, che non sposta di una virgola l’equilibrio di una squadra venuta fuori dopo mesi e mesi di esperimenti e tentativi tattici. Insomma, formazioni in campo come da pronostico: Buffon, Thuram, Ferrara, Tudor, Montero, Camoranesi, Tacchinardi, Davids, Zambrotta, Del Piero Trezeguet contro Dida, Costacurta, Maldini, Nesta, Kaladze, Seedorf, Pirlo, Gattuso, Rui Costa, Inzaghi, Shevchenko.
Partita tattica, come da previsioni: la posta in palio è ovviamente altissima, e lo spettacolo ne risente. Un gol annullato di Shevchenko annullato per un fuorigioco grosso così di Rui Costa, un miracolo di Buffon su un tuffo di testa di Inzaghi e un tiro di Del Piero per i primi quarantacinque giri di lancette: pochino. Il secondo tempo, se possibile, è ancora peggio: Conte dimostra al mondo che Camoranesi non era l’uomo giusto per sostituire Nedved, entrando al principio della ripresa, muovendosi come un ossesso e colpendo la traversa.
Fine delle trasmissioni, o meglio, fine dello spettacolo: le sostituzioni, dettate da infortuni e stanchezza (per i rossoneri, dentro Roque Junior, Ambrosini e Serginho e fuori Pirlo, Rui Costa e Costacurta; per i bianconeri, Zalayeta per Davids e Birindelli per Tudor, oltre al già citato cambio tra Camoranesi e Conte), non incidono, e le squadre, tatticamente ordinate quanto impaurite, si punzecchiano senza mai affondare un colpo degno di tale nome. Insomma, è zero a zero.
I supplementari sono ad altissima tensione nervosa, ma a zero in quanto a bel gioco: nessuno si scopre, ed insomma, si va ai rigori. Lippi compila la lista scegliendo Trezeguet come primo tiratore: Dida fa intuire subito quale aria tirerà, si getta in basso alla sua sinistra e dice di no. 0-0, tiro Milan. Per i rossoneri tira Serginho: la curva Juve, che fa da cornice ai rigori, non spaventa il brasiliano, che manda Buffon da una parte e la palla dall’altra. Ancora 1-0 Milan. Birindelli per la Juventus: sassata da terzino, Dida spiazzato. 1-1. Tocca al Milan, tocca a Seedorf: tiro bellissimo, ma Buffon assume sembianze divine e vola a mezz’altezza alla sua destra, impattando il pallone e pareggiando il conto dei tiri. Ancora 1-1.
Bianconeri al tiro con Zalayeta: il “Panteron” uruguagio avvia un rapporto con i penalty che diverrà tremendo, partorendo un tiro debole e centrale che è facile preda del volo del brasiliano Dida. Ancora 1-1. Kaladze per il Milan: centrale, pauroso, Buffon con i piedi e fa saltare di gioia i tifosi alle sue spalle. Ancora 1-1. La Juventus invia in spedizione-rigore Montero: tiro che a far peggio bisogna impegnarsi, e che per un Dida in serata di grazia è quasi un passaggio. 1-1 apparentemente d’acciaio.
È il turno di Alessandro Nesta: qualcuno finalmente si ricorda di come si potrebbero tirare i rigori, e il ricordo paga. 2-1 Milan. Il tiro di Del Piero vale già la Coppa: Dida però è spiazzato, tutto rimandato. 2-2. Ultimo rigore della serie, e capita sul destro di Shevchenko: l’ucraino con la faccia da bambino non chiude gli occhi e sceglie l’angolo giusto. 3-2. Il Milan batte la Juventus. Il Milan è campione d’Europa per la sesta volta della sua storia.
È la vittoria di Inzaghi e Shevchenko, di Pirlo e Dida, di Costacurta e Seedorf, di Gattuso e di Capitan Maldini, che quarant’anni esatti dopo papà Cesare alza al cielo una Coppacampioni in maglia rossonera. Ma è soprattutto la vittoria di Carlo Ancelotti, che firma la rivincita su giornalisti colpevoli di avergli affibbiato un’ingrata etichetta di perdente di successo, su addetti ai lavori scettici sulle sue qualità, su una tifoseria a tinte bianconere rea di averlo apostrofato come “maiale” e su una dirigenza che due anni prima gli aveva dato un perfido quanto immeritato benservito.
Fanno da contraltare le immagini in bianconero: immagini di una delusione atroce, che sanno di fine di un ciclo. Lippi abbandonerà l’anno dopo, per dedicarsi alla Nazionale e fecondare un’altra meravigliosa vittoria dei pronipoti di Dante. Poi è solo festa. Quando Paolo Maldini, in un tripudio di coriandoli rossoneri, alza la coppa, consegna alla storia un’immagine indimenticabile: la vittoria del Milan, certo, ma anche il fascino ardente di un’impresa italiana difficilmente ripetibile e che resterà scolpita nella memoria di tutti. Titoli di coda, musichetta della Champions: ancora una volta, i migliori siamo noi…
Champions League 2002-2003 – Finale
Manchester, campo neutro – Stadio Old Trafford
mercoledì 28 maggio 2003
JUVENTUS-MILAN 0-0 – Dopo i calci di rigore (2-3)
JUVENTUS: Buffon, Thuram, Tudor (Birindelli 42), Ferrara C., Montero, Camoranesi (Conte A. 46), Tacchinardi, Davids (Zalayeta 65), Zambrotta, Trezeguet, Del Piero – Allenatore Lippi
MILAN:Dida, Costacurta (Roque Junior 65), Nesta, Maldini P., Kaladze, Rui Costa (Ambrosini 87), Gattuso, Pirlo (Serginho 71), Seedorf, Shevchenko, Inzaghi F. – Allenatore Ancelotti
ARBITRO: Merk (Germania)
Sequenza calci di rigore: Trezeguet (parato), Serginho (gol), Birindelli (gol), Seedorf (parato), Zalayeta (parato), Kaladze (parato), Montero (parato), Nesta (gol), Del Piero (gol), Shevchenko (gol).

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