lunedì 6 febbraio 2017

Pelè good, Maradone better, George... Best

“MATT, CREDO DI AVER TROVATO UN GENIO…”(BOB BISHOP, OSSERVATORE DEL MANCHESTER UTD, IN UN TELEGRAMMA A MATT BUSBY)

Ogni appassionato di calcio inglese conosce George Best e chiunque si è avvicinato al mondo del calcio, anche marginalmente, ne ha sentito parlare almeno una volta. Fiumi di parole sono stati scritte sulla sua vita, sul suo modo di interpretare il gioco di calcio, sul suo essere star, sul suo rapporto alcool-donne, sul suo funerale. E’ stato fatto un film, inguardabile aggiungo io, qualcuno gli ha anche dedicato canzoni, e si vendono ancora t-shirt con il suo volto-icona. Io ho 35 anni e da amante del calcio britannico conoscevo Best anche se il massimo che avevo visto di lui in tv fino a qualche anno fa erano i suoi goal più famosi ed in particolare quello della finale della coppa dei campioni del 1968, ripetuto all’infinito, come se fosse stato il suo unico momento di gloria. Per molti, soprattutto giovanissimi, Best rappresenta la trasgressione, l’eroe dannato immerso in un mix di calcio, donne, soldi e alcool, l’esaltazione dello sballo, l’eccesso, il mito… Per fare un paragone con la musica Best era il Jim Morrison del football. Tutto vero ma io volevo capirne di più e volevo una risposta esauriente alla mia domanda ricorrente: chi era in realtà George Best?
George Best nasce a Belfast, il 22 maggio del 1946. la sua è una famiglia modesta e numerosa, di quelle che sgobbano per tirare avanti, in un paese, l’Irlanda del Nord, a dir poco difficile. Il Belfast boy cresce in un quartiere povero, e coltiva la sua passione per il calcio. La madre di George, Anne, disse più tardi che assieme a George c’era sempre una palla. Intorno ai 15 anni la svolta: disputa una partita contro una squadra formata da ragazzi due anni più grandi. Segna due goal e fa ammattire il suo marcatore. A guardare il match c’è un osservatore del Manchester United, Bob Bishop, che annota il suo nome e spedisce un telegramma al grande Matt Busby, padre padrone dello United, sottolineando di aver trovato un genio.
Convocato dai Red Devils George, in compagnia di un coetaneo che poi diventerà suo compagno di squadra, prende una nave e parte per Liverpool, poi con un treno raggiunge la stazione centrale di Manchester. Sale su un taxi e alla richiesta di George di essere portato all’Old Trafford l’autista risponde quale Old Trafford? A Manchester infatti ci sono due Old Trafford, quello famoso del calcio e quello meno famoso del cricket. Alla fine arriva in quello giusto ma l’impatto per lui è devastante, George è un ragazzino timido, ha nostalgia di casa, dopo un solo giorno nel nord dell’Inghilterra scappa e torna a Belfast. Ma i dirigenti dello United hanno intuito che sono di fronte ad un potenziale fenomeno, leggenda vuole che sia proprio il grande Matt Busby ad andare a Belfast a chiedere al ragazzo di riprovare. George, spinto anche dalla famiglia, si convince, torna a Manchester, e dopo due anni di apprendistato il diciassettenne venuto dal nulla ha la sua occasione, fa l’esordio in First Division contro il West Bromwich Albion, è il 14 settembre 1963 e nasce la stella immortale di George Best.
Io non mi sono soffermato sui suoi goal, sulle sue foto da copertina, sulle sue finte e i suoi dribbling, come la maggior parte dei tifosi di calcio fanno. Tramite internet e non solo mi sono documentato, ho analizzato filmati, sono andato a cercare decine e decine di siti in lingua inglese, letto libri, raccolto circa un migliaio di foto ed interviste rare. Ho cercato di comprendere l’uomo prima del calciatore, per capire cosa rappresentò l’essere Best per la sua generazione, la generazione per eccellenza, quella del rivoluzionario 68. Un uomo, Best, con un cognome da predestinato, divenuto eroe di un’epoca in cui tutto sembrava possibile, in una nazione, l’Inghilterra, che sul finire degli anni 60 è l’ombelico del mondo, fonte ed ispirazione di nuove tendenze in moltissimi campi, tra i quali la moda, la musica, la tecnologia e il football.
George, senza ovviamente pianificarlo, diventa il re di un modo di essere anticonformista, capelli lunghi, sguardo fiero. Lo è anche il suo modo di giocare, che prima dei suoi atteggiamenti fuori dal campo, lo eleggono all’idolo indiscusso delle folle, il mattatore, il geniale intrattenitore del beautiful game. George in campo mette il cuore, la gente lo percepisce e incomincia ad amarlo alla follia. Non solo funambolici, ubriacanti dribbling e sublimi goal ma anche tanta generosità, tanta corsa, tanto sudore e mai il piede indietro nei tackle duri. E’ al tempo stesso primadonna e gregario, due giocatori in uno: la perfezione, il genio. Il tutto sotto l’aspetto di un ragazzo gracile, statura 1,72, ma forse proprio per questo leggiadro ed imprendibile nei suoi intuitivi spostamenti.
A volte, mentre vola verso l’aria avversaria tiene stretto nel pugno il polsino della maglietta, le sue esultanze dopo un goal emozionano quanto il goal stesso, in un’epoca in cui dopo una rete si tornava a centrocampo dopo aver ricevuto una stretta di mano dal compagno di squadra. Non sono il successo, il denaro a motivare le scorribande di George in campo, lui gioca mettendo tutto se stesso in un azione, in un tiro, in un bel cross per un compagno di squadra. Crea un modo di essere e i ragazzi lo eleggono a loro idolo. Io, per capire meglio il genio di Best, sono andato fino a Manchester. Ho passato ore ad osservare le sue foto private, le sue giocate meno conosciute, cercato di capire il suo modo di essere, letto nei dettagli i suoi libri, trovato aneddoti e per ultimo visto da vicino la sua maglia, i suoi scarpini, i suoi oggetti personali esposti nel maestoso museo situato all’interno del suo stadio, l’Old Trafford. George aveva molti soprannomi, era detto El beatle, Georgie, geordie, bestie, Belfast boy, the genius.
Ho letto spesso, anche da penne di primo livello, che George era un grande calciatore ma poteva esserlo molto di più, che ha vinto trofei ma che poteva vincerne molti di più. Io, ma è solo una mia opinione personale, ho sempre digerito male queste considerazioni. George è stato un grande calciatore, punto. Non importa se è stato il più grande o poteva esserlo. Ha vinto campionati da indiscusso protagonista, classifiche cannonieri, una coppa campioni, un pallone d’oro partendo da un posto chiamato Cregagh Estate, Irlanda del Nord, dove sei fortunato se hai un lavoro per mangiare tutti i giorni. Era un ragazzo timido George, con la passione per il calcio, come ce ne sono migliaia in tutti i quartieri poveri del mondo. Lui aveva un dono e la vita, la sua stella, l’ha eletto a Dio delle folle calcistiche. Lui voleva correre dietro ad un pallone e così fece.
Voleva far divertire, perché era consapevole di averlo quel dono e voleva condividerlo con chi aveva la sua stessa passione. Lo fece e se leggete le sue interviste sorvolando le solite frasi ad effetto che comunque a lui piaceva fare, capirete che George giocava per se stesso, per i suoi compagni, ma soprattutto per la gente, quella con la sua stessa passione. Era un ragazzo di una sensibilità enorme, spesso tormentato dai sensi di colpa nei confronti della sua famiglia dovuti alla sua enorme fama. Amava la sua gente ma ne era spaventato allo stesso tempo. Non è un caso il fatto che lui stesso ricordasse spesso nelle sue interviste il rumore della folla nel giorno del suo esordio. Si è goduto la vita George e non l’ha mai rinnegato. Ho letto mille volte che è stato travolto dalla sua stessa fama degna di una rockstar, che è stato il primo giocatore di calcio a diventare un’icona.
Tutto vero, ma lui era George Best, era nato per diventare quello che è diventato e non si è sottratto al suo destino, nonostante a volte non capisse la morbosità generata dal suo personaggio. Ha vissuto da George Best mantenendo quel suo essere semplice nonostante i suoi molti eccessi. Al suo funerale c’erano 500mila persone e milioni di tifosi nel mondo hanno pianto la sua morte. Eppure non è di certo un uomo di quelli da prendere come un esempio, tutt’altro. Se la gente l’ha capito, spesso difeso, amato alla follia e tra questi ora c’è anche il sottoscritto, è semplicemente perchè la gente, quella con la passione pura per il calcio, quella che viene da dove veniva lui, capiva il suo eroe, nei suoi giorni di gloria ma soprattutto nei suoi momenti bui
Perché il calcio generato da Best era il calcio puro, ancora lontano anni luce dall’industria mediatica che è oggi. Se andate nei pub di Manchester e chiedete ai cinquantenni intenti a sorseggiare una pinta chi fosse George Best non ne troverete uno pronto a parlar male di quel ragazzo venuto dal nulla. Chi lo conosce superficialmente ripete come una moda le sue frasi celebri a base di donne, macchine e soldi. George se l’è goduta, eccome se l’è goduta la sua vita da George Best ma se andate a scavare in fondo al mito troverete un ragazzo timido che una volta divenuto il giocatore più famoso d’Inghilterra evitava di andare a trovare la sua famiglia, nonostante volesse, per non turbare la tranquilla vita dei suoi cari.
Prima di morire la sua foto di un uomo con le ore contate, ridotto cosi a causa dell’alcool, ha fatto il giro del mondo. Non morite come me recitava lo slogan, la migliore delle pubblicità per la campagna anti alcolici. Fonti vicine a George, tra cui un compagno di squadra che gli ha parlato prima che lui, il grande intrattenitore entrasse in coma, raccontano che quella foto, quello slogan è stata in pratica un’estorsione. George non avrebbe detto non morite come me ma piuttosto rifarei tutto, me la sono goduta questa vita e rifarei tutto. La stampa ha glissato, preferendo la versione politically correct. Forse non sapremo mai la verità ma in fondo poco importa.
Una delle sue ultime interviste è l’essenza del suo pensiero. Quel ragazzo dagli occhi azzurri nato nel 1946, figlio del boom demografico del dopo guerra, diceva che gli mancavano i giorni di gloria, come succede ad ogni ex calciatore. A chi gli ricordava che lui aveva fatto la storia dello sport più famoso del mondo lui rispondeva così: ”Boh, la storia… Io ho sempre giocato per piacere, per divertire me stesso e i miei fan. Quando ho iniziato io, l’Inghilterra era fantastica. Si cominciavano a portare i capelli lunghi, la musica era favolosa, la moda era meravigliosa e anche il calcio britannico non era male. Vincevamo le coppe europee e ogni anno una squadra diversa vinceva il campionato. Oggi invece ci sono solo Manchester United, Chelsea e Arsenal. Che noia…
Non si giocava con gli orecchini, i capelli colorati, i tatuaggi sui polpacci. Io, Di Stefano, Pelè, i miei amici dello United facevamo divertire la gente. Allora il calcio era divertimento… Penso che si dovrebbe sempre scendere in campo sorridendo ed è quello che facevo io. Oggi invece è tutto troppo maledettamente serio, perché ci sono troppi soldi, perché se perdi è la fine del mondo. E ti dico che se tornassi in campo oggi, rifarei tutto allo stesso modo, giocherei per far divertire il pubblico, e basta”. Questo era l’altro George Best, un ragazzo che appena metteva piede in uno stadio, scaldava i cuori della gente…

domenica 5 febbraio 2017

La più grande truffa della storia del calcio

Carlos Henrique Raposo è stato il più grande truffatore della storia del calcio e per anni ha militato in alcune delle squadre più importati del Sudamerica senza mai giocare una partita. Questa è la sua storia.

Carlos Henrique "Kaiser" Raposo. Immagine via Twitter
A 20 anni Carlos Henrique Raposo non accettava che la sua carriera calcistica fosse finita prima di cominciare. Come i suoi compagni, anche lui sapeva di non aver alcun talento e che non sarebbe mai diventato un professionista. Ma guardandosi allo specchio, Carlos aveva visto che la natura gli aveva donato un corpo da campione, asciutto e atletico.
Nei suoi anni da calciatore semi-professionista, Carlos si era guadagnato il soprannome di "Kaiser" perché il suo fisico ricordava quello di Beckenbauer. Era convinto che gli sarebbe bastato quello per ottenere la gloria che desiderava. Ma come fare?
"Gli unici problemi Carlos ce li aveva con la palla," racconta ridendo Ricardo Rocha, ex difensore brasiliano del Real Madrid. "Diceva di essere un attaccante, ma non ha mai fatto un gol né un assist. Diceva sempre di essere infortunato. Se la palla andava a sinistra lui andava a destra e viceversa. Non aveva talento ma era un tipo simpatico. Tutti gli volevano bene."
Tutti gli volevano bene: è stato questo l'unico motivo per cui Carlos, uno sconosciuto senza talento, è riuscito a frequentare i migliori calciatori della sua epoca e indossare—non a lungo, a essere sinceri—la maglia di alcune tra le squadre più prestigiose del Brasile.

Il "Kaiser" (a sinistra) con alcuni suoi compagni di squadra. Immagine via Twitter
Era andata così. Raposo aveva cominciato a frequentare i locali in cui uscivano giocatori come Rocha, Renato Gaucho, Romario e Edmundo. Ci andava indossando vestiti costosi chiesti in prestito agli amici per fare scena ed era riuscito a fare una buona impressione. In breve, qualcuno aveva parlato con qualcun altro e contro ogni pronostico il Kaiser si era ritrovato a giocare per il Botafogo, a 20 anni.
In genere, Raposo firmava contratti di sei mesi—il che gli garantiva stipendi sostanziosi ma non la possibilità di vivere tranquillo. La sua tattica era sempre la stessa: quando si presentava al primo allenamento diceva di non essere in forma e di dover seguire "per almeno due settimane" le indicazioni del suo—ovviamente inesistente—allenatore individuale.
I primi veri problemi arrivano qualche tempo dopo, quando gli allenatori volevano vedere i primi risultati di quella preparazione. A quel punto Carlos convinceva uno dei suoi compagni di squadra a fargli un intervento abbastanza duro da mandarlo in infermeria. Una volta lì, con qualche bustarella convinceva i dottori a dichiararlo infortunato.
"Chiedevo a un mio compagno di scontrarsi con me in area di rigore," racconta il Kaiser. "Poi dicevo che mi faceva male un muscolo e stavo 20 giorni fermo. Quando le cose sono diventate più difficili mi sono fatto amico un dentista che mi faceva finti certificati medici che attestavano che avevo problemi fisici. Tiravo avanti così."
Prima di andare avanti, bisogna dire che all'epoca—parliamo degli anni Ottanta—non esistevano tutti i controlli di oggi. Non c'era nemmeno molta copertura sui media: a meno di non andare allo stadio ogni settimana, era difficile conoscere tutti i dettagli tecnici di un giocatore. La radio, i giornali e il passaparola erano le uniche cose in grado di influenzare le opinioni. Bastavano poche parole dette dalla persona giusta per ottenere spazio e attenzioni. E in quel campo il Kaiser Raposo non aveva rivali.
"Se il ritiro era in un albergo, io ci andavo due o tre giorni prima portando con me una decina di ragazze e affittavo loro le stanze sotto quelle prenotate per la squadra. Così di notte nessuno doveva lasciare l'albergo, bastava scendere le scale," racconta Carlos Henrique.
I soldi continuavano ad arrivare. Le amicizie si facevano più strette. Raposo organizzava feste, intratteneva i suoi compagni, diventava sempre più popolare e cominciava a godersi la vita da calciatore... al punto che una sera il famoso attaccante del Palmeiras Renato Gaucho era stato lasciato fuori da una discoteca perché "Renato è già dentro"—il Kaiser era entrato spacciandosi per lui.
Un articolo di giornale su "Kaiser" Raposo. Immagine via Twitter
La seconda squadra a cadere nella truffa era stata il Flamengo, una delle più titolate del Sudamerica. Carlos Henrique Raposo era riuscito a farsi ingaggiare grazie alla sua amicizia con il suddetto Renato Gaucho. Al suo arrivo, il Kaiser aveva dichiarato di avere "tutto da dimostrare," perché nei pochi mesi passati al Botafogo non aveva potuto mostrare al mondo il suo talento a causa della lesione muscolare subita durante il primo allenamento. Un paio di buone parole sui giornali, una raccomandazione da parte di qualche amico e voilà: il Kaiser era diventato un calciatore del Flamengo.
Risultato: zero minuti giocati, zero gol.
Nonostante questo, il passaggio al Flamengo non aveva danneggiato la sua carriera. Dopo aver lasciato quella squadra, il Kaiser aveva continuato a girare per il campionato brasiliano tramite favori e raccomandazioni di amici. Poi aveva tentato l'avventura all'estero e a suo dire era finito a giocare per il Puebla FC in Messico e per gli El Paso Patriot nel campionato statunitense.
Le sue statistiche erano sempre uguali in ogni squadra: mai un minuto di gioco, nessun gol segnato.
Come ci insegnano i migliori film sui truffatori, tutto stava nella creazione del personaggio e nel portarlo avanti giorno per giorno. Se credi in te stesso, anche gli altri crederanno in te.
"[Kaiser] faceva finta di parlare in inglese al cellulare, che allora era un oggetto molto costoso e raro, inventando le parole," racconta Ronaldo Torres, che oggi è un preparatore atletico della Fluminense ma che nella sua carriera ha giocato nel Botafogo insieme a Raposo. "Un giorno gli ho chiesto, 'con chi parli?' E lui è scoppiato a ridere, quel bastardo! Gli volevamo tutti un gran bene."
Nel 1989 era tornato in Brasile, al Bango Rio de Janeiro, dove secondo la leggenda sarebbe anche riuscito a segnare un gol guadagnandosi sulla stampa il soprannome di "Pelé del Bangu." È lì che aveva avuto una delle idee più geniali della sua (finta) carriera.
Tutte le squadre in cui ha giocato Raposo. Immagine di Kevin Domínguez, via Twitter
L'idea gli era venuta durante una partita che il Bangu stava perdendo 2 a 0. Castor de Andrade, il magnate delle scommesse illegali proprietario della squadra, era isterico e dimenticando tutte le voci su quello scarpone chiamato "Kaiser" aveva deciso che era il momento di farlo giocare. Il presidente voleva un attaccante in campo e lo voleva subito, perciò aveva chiamato l'allenatore con i walkie-talkie e gli aveva ordinato di far entrare Carlos Henrique Raposo.
Chiunque altro sarebbe andato nel panico, ma è proprio nei momenti più difficili che si vede il genio. Carlos Henrique si era guardato intorno, aveva scelto un calciatore a caso della squadra avversaria e aveva cominciato a insultarlo, facendo scoppiare una rissa dal nulla. Era stato espulso prima ancora di entrare in campo, senza aver giocato un solo minuto.
Alla fine della partita, Castor de Andrade era infuriato. Si era diretto negli spogliatoi con l'intenzione di dare a Kaiser una lezione ed era rimasto sorpreso quando se l'era ritrovato davanti con le lacrime agli occhi.
"Prima di dirmi qualunque cosa, sappi solo che Dio mi ha tolto mio padre e ora me ne ha ridato un altro [riferendosi a lui]. E non posso permettere che qualcuno dia a mio padre del ladro," aveva detto il Kaiser. Castor de Andrade si era commosso e l'aveva perdonato.
Missione compiuta: il contratto gli era stato rinnovato per altri sei mesi.
Carlos Henrique Raposo qualche anno fa. Immagine
Uno degli episodi più oscuri della storia di Carlos Henrique Raposo è il suo ingaggio da parte dell'Indipendente, una squadra argentina vincitrice della Coppa Libertadores nel 1984. Secondo Raposo, era riuscito a firmare un contratto—sempre di sei mesi—tramite un amico che aveva in comune con Jorge Burruchaga, calciatore argentino compagno di squadra di Maradona e campione del mondo nel 1986. A suo dire, in quei sei mesi non aveva ovviamente giocato nemmeno una partita.
L'Independiente ha smentito questa versione dei fatti. Secondo Carlos, la prova della sua buona fede sarebbe la foto di squadra dell'epoca, in cui si vede un calciatore con lunghi capelli castani che risponde al nome di Carlos Enrique. Il problema è che questo Carlos Enrique, senza la h, non è il "Kaiser" ma un'ala sinistra argentina che non ha niente a che fare con lui.
Negli anni Ottanta, per un calciatore brasiliano, giocare in Europa era il massimo livello di successo possibile. Il Kaiser non poteva farsi sfuggire quest'opportunità e a un certo punto della sua carriera aveva deciso di trasferirsi sul vecchio continente e si era fatto ingaggiare dalla squadra francese del Gazélec Ajaccio. L'accoglienza che aveva ricevuto nella nuova squadra l'aveva sorpreso, ma era riuscito a cavarsela grazie a un'altra grande idea.
"Lo stadio era piccolo ma pieno di tifosi. Pensavo che avrei dovuto solo fare qualche corsetta e salutarli, ma quando sono arrivato in campo ho visto che c'erano dei palloni e ho capito che avrei dovuto allenarmi sul serio. Sono diventato nervoso, avevo paura che dal mio primo allenamento avrebbero capito che non sapevo giocare," racconta Kaiser.
Cosa puoi fare se ti ritrovi in uno stadio pieno di tifosi accorsi in massa, se non sei un professionista?
"Ho iniziato a raccogliere tutti i palloni e a lanciarli ai tifosi. Nel frattempo salutavo e mandavo baci. La folla era impazzita. Alla fine sul campo non c'erano più palloni," ha spiegato Raposo. E visto che non c'erano più palloni la squadra aveva dovuto limitarsi all'allenamento fisico, cosa con cui Kaiser non aveva problemi.

A 39 anni, Carlos Henrique Raposo aveva appeso gli scarpini al chiodo. Ancora oggi è difficile credere che qualcuno sia riuscito a giocare in tutte le squadre in cui ha giocato lui senza saper nemmeno com'è fatto un pallone. Il Kaiser ha raccontato la sua storia nel 2011, in un'intervista alla televisione brasiliana, anche se molti dei personaggi che vi sono citati hanno negato di essere rimasti in rapporti con lui.
È anche difficile immaginare che una storia come la sua possa succedere oggi. Che tutte le sue avventure siano vere o meno, restano comunque incredibili. A giocare in tutte quelle squadre prestigiose avrebbe potuto essere chiunque e nessuno si sarebbe accorto di niente.
"Non devo scusarmi di niente. Le squadre hanno illuso e continuano a illudere un sacco di giocatori, qualcuno doveva pur vendicarli," ha detto Carlos Henrique Raposo, che si vede come una specie di supereroe del calcio, quando in realtà è solamente il più grande truffatore della storia del gioco.

sabato 4 febbraio 2017

La favola della Grecia a EURO 2004

EURO 2004: GRECIA

Dovevano essere gli europei del Portogallo, bello e vincente. Invece la Grecia, sempre sul punto di essere eliminata, arriva in finale e beffa i lusitani. Per l’Italia ancora delusioni e il rammarico del “biscotto” ordito ai suoi danni da Danimarca e Svezia


PROLOGO

Nell’ottobre 1999 l’esecutivo UEFA prende la sua decisione: gli europei del 2004 si giocheranno in Portogallo. I lusitani a sorpresa battono e altre candidate Spagna ed Austria-Ungheria.
Le qualificazioni si svolgono fra settembre 2002 e novembre 2003 e ne prendono parte cinquanta squadre divise in dieci gruppi da cinque, con sfide andata-ritorno. Le prime di ogni girone si qualificano direttamente ad Euro 2004, mentre le seconde disputeranno gli spareggi. I pronostici sono sostanzialmente rispettati con tutte le grandi qualificate. L’unica vera sorpresa è rappresentata dalla Lettonia che arrivando seconda dietro la Svezia nel gruppo 4 affronta e batte la Turchia (terza ai Mondiali 2002) negli spareggi. Sempre negli spareggi l’Olanda viene sconfitta in Scozia per 1-0 ma nel ritorno dilaga facilmente per 6-0.
Le sedici che si affronteranno per il titolo europeo sono divise in quattro raggruppamenti. Nel Gruppo A i padroni di casa del Portogallo trovano i cugini della Spagna, l’indecifrabile Russia e l’outsider Grecia. Il Gruppo B vede Francia e Inghilterra nettamente favorite su Croazia e Svizzera. Il Gruppo C è quello dell’Italia in compagnia della Svezia dell’emergente Ibrahimovic, la Danimarca e la debole Bulgaria. L’ultimo girone è il più temibile con Germania, Olanda e Repubblica Ceca giocarsi i due posti con la Lettonia come sparring partner.
Quattro protagonisti di Euro 2004: la sorpresa-Lettonia, l’Olanda, la Francia e la Svezia

TRAPATTONI RILANCIA

Gli azzurri partono per la corsa a Euro 2004 ancora con la bruciante delusione del mondiale nippo-coreano sulle spalle. Giovanni Trapattoni e il suo inguaribile ottimismo guardano però avanti e il nuovo obiettivo, quello del riscatto, è rappresentato da Euro 2004. Il sorteggio del girone di qualificazione è benevolo: viene pescata l’abbordabile Serbia e Montenegro del neo ct Savicevic, la resistibile Finlandia di Litmanen e i resistibilissimi Galles e Azerbaigian. L’Italia non tradisce e si piazza prima nel proprio raggruppamento con 17 punti (5 vittore, 2 pareggi ed una sola sconfitta, in Galles). Dopo un inizio stentato, gli uomini di Trapattoni infilano 4 vittorie nelle ultime cinque partite proponendo a tratti un buon calcio e subendo complessivamente solo quattro reti.
Il cammino parte da Baku, molto più Asia che Europa, contro l’Azerbaigian. Un 2-0 che si concretizza tutto nella ripresa grazie ad un’autorete e a una perla di Del Piero. Un mese più tardi al San Paolo di Napoli gli azzurri impattano contro la Serbia-Montenegro che passa in vantaggio alla mezz’ora con un gran gol di Mijatovic e viene raggiunta da una punzione del Del Pietro deviata da Jevric. Quattro giorni dopo arriva anche la prima ed uncia sconfitta del girone ad opera del Galles che si impone 2-1. La squadra di Hughes passa in vantaggio nei primi minuti della partita poi il solito Del Piero trova il pareggio su punizione grazie alla deviazione della barriera. Nel secondo tempo la difesa azzurra si fa infilare in velocità da Bellamy che salta anche Buffon e segna la rete della vittoria.
Il 2003 si apre con il doppio confronto con la Finlandia. A marzo a Palermo arriva una vittoria scacciapaura con un 2-0 che consente di continuare a sperare nella vittoria del girone di qualificazione. Le reti sono entrambe di Vieri al 6′ e al 23′ con due splendidi assist di Totti. In giugno i nordici sono ancora trafitti dall’uno-due micidiale della premiata ditta Totti-Del Piero. In settembre il Trap scaccia definitivamente i fantasmi con un 4-0 sui concorrenti del Galles. Una tripletta di Inzaghi ed un rigore di Del Piero regalano all’Italia la vetta del girone. Quattro giorni dopo al “Marakana” si Belgrado gli azzurri impattano con Serbia-Montenegro per 1-1 (rete di ancora di Inzaghi) costringendosi ad una vittoria a tutti i costi mell’ultimo match contro l’abbordabile Azerbaigian. Vittoria che arriva puntualmente a Reggio Calabria con un rotondo 4-0 frutto delle reti di Inzaghi (doppietta), Vieri e Di Vaio.

IL GIRONE DEGLI AZZURRI

Gli azzurri arrivano così in Portogallo sorretti da un moderato ottimismo. Il 14 giugno a Guimarães la Danimarca invece impone all’Italia uno stop imprevisto. La squadra di Trapattoni mostra pesanti limiti di gioco e non va oltre lo 0-0 con i danesi mai in difficoltà. Il ct cambia squadra nella ripresa ma vanamente. Il match sarà poi ricordato per lo sputo di Totti a Poulsen che costerà al Pupone la squalifica per prova televisiva.
Contro la Svezia è già ultima spiaggia visto che Ibrahimovic e compagni nel frattempo hanno frantumato la Bulgaria per 5-0. Trapattoni disegna un 4-3-3 molto aggressivo e veloce con Pirlo in cabina di regia e Cassano Cassano in serata di grazia. Nella prima mezz’ora l’Italia ha almeno 5 nitide occasioni da gol, ma malasorte e poca lucidità sotto rete impediscono di chiudere subito la pratica europea. Il vantaggio arriva al 37′: Panucci fa il bello e il cattivo tempo sulla sua fascia destra; dribbla l’uomo, rientra e mette in mezzo un pallone d’oro per la testa di Cassano che insacca da due passi. Il secondo tempo, purtroppo, è un’altra partita. I nostri pagano lo scotto dello sforzo fisico nella prima frazione di gioco e la Svezia guadagna metri e coraggio. Al 40’ la sindrome “dell’ultimo minuto” che ci costò l’europeo contro la Francia s’insinua nei nostri giocatori e così dopo un’azione confusa Ibrahimovic in piena area di rigore inventa un colpo di tacco e mette alle spalle di Buffon. Il risultato non cambia più fino alla fine della partita.
Contro la Bulgaria serve almeno vincere e sperare nell’indole sportiva di Danimarca e Svezia. Infatti, il 2-2 tra le due squadre eliminerebbe matematicamente l’Italia. Gli azzurri sin dal fischio d’inizio appaiono intimoriti e poco concentrati, non riescono a ripetere il folgorante inizio di partita di quattro giorni prima contro la Svezia. La partita non offre grandi emozioni ma al 44’ arriva la doccia fredda, Materazzi trattiene ingenuamente in aria Berbatov e Ivanov concede il rigore. Dal dischetto Petrov spiazza Buffon. Il secondo tempo si apre con un’altra Italia, più grintosa e concreta. Al 47′ trova il pareggio: Cassano ha la palla buona tra i piedi in piena area, calcia a colpo sicuro, la palla si stampa sulla traversa e rimbalza fuori dalla porta, Perotta raccoglie e insacca. I bulgari appaiono stanchi, gli azzurri pressano. Ma non basta. I minuti passano e l’incubo dell’eliminazione si avvicina. Al 93′ Cassano al volo di destro insacca. Il ragazzo di Bari vecchia passa in breve dalla gioia alla disperazione : due minuti prima l’insperato 2-2 tra Svezia e Danimarca si era materializzato: la perla di Cassano è l’ultima immagine dell’europeo Italiano.
L’incredibile rete di Ibrahimovic in Italia-Svezia 1-1

GLI ALTRI RAGGRUPPAMENTI

Gruppo A: Allo stadio do Dragão di Porto la Grecia sconfigge i padroni di casa per 2-1 e manda i lusitani subito a rischio eliminazione, mentre la Spagna vince 1-0 sulla Russia. Nella seconda giornata i portoghesi si riscattano con un 2-0 alla Russia, eliminandola; contemporaneamente la Grecia blocca sul pari la Spagna. Tutto il girone si decide quindi all’ultima giornata: i portoghesi devono vincere per avere la certezza della qualificazione, agli spagnoli e ai greci basta un pari. I lusitani fanno loro il derby iberico 1-0 con rete di Nuno Gomes, e ciò rende gli spagnoli attenti al risultato di Grecia-Russia: i russi vanno in doppio vantaggio, ma gli ellenici segnano il gol del 2-1 che consente loro, pur avendo perso, di pareggiare la differenza reti con la Spagna ed eliminarla.
Portoglallo-Spagna 1-0: Nuno Gomes e Raul Bravo. Il bomber portoghese deciderà il match
Gruppo B: Nella gara di esordio Svizzera e Croazia pareggiano con uno scialbo 0-0. Decisamente più vivce l’altro incontro: all’Estádio da Luz di Porto l’Inghilterra va in vantaggio contro la Francia; Beckham sbaglia un rigore e nei minuti di recupero Zinédine Zidane mette a segno una punizione e poi trasforma un rigore che dà la vittoria alla sua Nazionale. Gli inglesi, costretti a vincere, si riscattano battendo la Svizzera 3-0 con una doppietta di Wayne Rooney, mentre i francesi pareggiano 2-2 con la Croazia. Nell’ultima giornata i francesi sconfiggono la Svizzera per 3-1, mentre il match-qualificazione tra Inghilterra e Croazia premia i britannici, che superano il turno. Dopo essere passati in svantaggio già al 5′ (rete di Niko Kovač), Scholes e Rooney con una doppietta ribaltano il risultato. Tudor al 73′ riapre la partita ma sei minuti dopo Lampard fissa il risultato sul 4-2.
Il rigore di Zidane decide al 93′ il match tra Francia e Inghilterra
Gruppo D: Si apre subito con il big-match Germania-Olanda. I tedeschi vanno in vantaggio con Torsten Frings per poi si farsi raggiungere all’81’ da Van Nistelrooy. Contemporaneamente la Repubblica Ceca batte 2-1 la Lettonia che era passata a sorpresa in vantaggio con Verpakovskis. Nella seconda giornata la Repubblica Ceca sconfigge i Paesi Bassi. In svantaggio per 2-0 dopo venti minuti, i cechi riescono a ribaltare la partita con Koller, Baroš e Šmicer. La Germania invece si fa bloccare inopinatamente sullo 0-0 dalla Lettonia. Nell’ultimo turno ancora Repubblica Ceca sugli scudi; vince ed elimina la Germania piazzandosi prima mentre l’Olanda all’ultima chiamata ha ragione dei lettoni con un rotondo 3-0.
Bastian Schweinsteiger e Juris Laizans in Germania-Lettonia 0-0

QUARTI DI FINALE

Apre i quarti Portogallo-Inghilterra. Inglesi subito avanti al 3′: lancio di James, Costinha tenta un retropassaggio di testa che finisce per servire Owen e rete con bella girata di esterno destro. Al 27′ Rooney, la stella di Euro 2004, è costretto ad uscire zoppicando, al suo posto entra Vassell. L’Inghilterra stringe i denti per tutto il match ma all’83’ Helder Postiga agguanta il pareggio di testa su cross di Simao. I supplementari, con un’Inghilterra imbottita di manovali, iniziano nel segno del Portogallo. Il “Da Luz”, finalmente, esplode al 5′ del secondo tempo supplementare: Rui Costa con un bolide di destro da 20 metri fredda James. E’ il 2-1, ma a 5 minuti dal termine – sugli sviluppi di un corner – Lampard corregge in rete il pallone del pareggio. Ai calci di rigore che fa la differenza è il portiere portoghese Ricardo: prima para il tiro di Vassell (a mani nude, dopo essersi tolto i guanti), poi realizza il rigore del 6-5 che qualifica il Portogallo alla sua seconda semifinale europea consecutiva.
La Grecia elimina a sorpresa la Francia campione d’Europa in carica e vola in semifinale. Il successo degli ellenici è meritato al termine di 90′ perfetti, dominati tatticamente in ogni zona del campo. Lenta e inconcludente la Francia che paga carissimo la giornata di scarsa vena dei suoi uomini migliori (Pires, Zidane, Henry e Trezeguet) e la sua incapacità a trovare delle contromosse per cercare di eludere l’asfissiante pressing degli uomini di Rehhagel. Charisteas realizza la rete della vittoria al 65′ con uno splendido colpo di testa.
La Repubblica Ceca travolge 3-0 la Danimarca e raggiunge la Grecia in semifinale. Partita a due facce: primo tempo col gioco in mano ai danesi che però non concretizzano, ripresa nella quale i boemi trovano subito il gol con Koller al 4′ (liscio di Laursen) e poi approfittano dello sbilanciamento avversario colpendo altre due volte con Baros che, con 5 reti, diventa capocannoniere di Euro 2004.
L’ultimo quarto di gioca a Lisbona tra Svezia e Olanda. La sfida rimane bloccata sullo 0-0 anche dopo i tempi supplementari, rendendo necessari i tiri di rigore. Dopo gli errori di Ibrahimović (Svezia) e Cocu (Olanda), il risultato è di 4-4 e si va ad oltranza. Mellberg si fa parare il rigore mentre Robben trasforma il tiro del 5-4 che elimina la Svezia e qualifica i tulipani, che per la prima volta nella loro storia vincono una gara ai rigori.
A sinistra, la rete di Charisteas in Grecia-Francia 1-0. A destra, duello aereo tra Larsson e Stam. Passeranno gli arancioni ai rigori

SEMIFINALI: IL PORTOGALLO C’E’

A Lisbona il Portogallo si gioca la finale e la storia. Davanti c’è solo l’ostacolo Olanda. Al via nessuna sorpresa nelle formazioni. Scolari recupera lo squalificato Pauleta e lo schiera dal primo minuto al posto di Nuno Gomes, Rui Costa va in panchina. Capitan Figo, Deco e Ronaldo giocano alle spalle di Pauleta. Advocaat deve rinunciare all’infortunato Ronald De Boer, al suo posto c’è Bouma che affianca Stam. A centrocampo Cocu protegge la difesa, a Seedorf, invece, tocca il compito di far girare la squadra, ma il milanista non è in giornata e il gioco degli orange ne risente. In avanti, ai fianchi di Van Nistelrooy, confermato Robben a sinistra, mentre a destra Advocaat, come previsto, inserisce Overmars al posto del deludente Van der Meyde.
Al 6′ e al 10′, prima Deco e poi Figo, mandano in tilt la difesa olandese, nel primo caso Van Der Sar si salva, nel secondo Pauleta arriva con un attimo di ritardo all’appuntamento con il gol. Al 26′ il boato dell’Alvalade festeggia l’incornata vincente di Cristiano Ronaldo che devia in rete un corner di Deco. Al 39′ l’Olanda pareggia, ma Frisk annulla il gol di Van Nistelrooy (splendido il servizio di Overmars) per un fuorigioco dubbio. Al 41′ giocata di classe di Figo che si beve Van Bronckhorst e di sinistro scarica un gran tiro che si infrange sul palo. Squadre negli spogliatoi, Portogallo in vantaggio meritatamente.
Nella ripresa Advocaat, giustamente ma in colpevole ritardo, inserisce la seconda punta Makaay al posto di Overmars. Al 9′ Pauleta si divora un gol fatto calciando su Van Der Sar, quattro minuti più tardi, però, ci pensa un Maniche strepitoso a spingere il Portogallo verso la finale, il suo destro di rara bellezza e potenza dai 25 metri si infila sulla sinistra dell’incolpevole Van Der Sar. L’Alvalade rosso-verde si sente già in finale, ma cinque minuti più tardi, al 18′, un’autorete di Andrade (retropassaggio-pallonetto per Ricardo) riporta in partita l’Olanda. Gli orange ci credono ma le gambe non girano per la stanchezza. Il finale è da brividi, Frisk annulla, questa volta senza dubbi, un gol a Makaay è l’ultima emozione della partita che consacra i lusitani.
Portogallo-Olanda 2-1. A sinistra duello tra Ruud van Nistelrooy e Ricardo Carvalho. A destra sempre van Nistelrooy tra Nuno Valente e Jorge Andrade

SEMIFINALI: LA GRECIA A SORPRESA

La Repubblica Ceca arriva con le vele spiegate, preceduta da quattro vittorie. La squadra del bravo Rehhagel che ha già messo k.o. il Portogallo (finalista) nella gara inaugurale, ha mandato a casa la Francia, campione uscente, nei quarti. La partita prende subito la piega prevista, ma con qualche variazione: alla fuliminea partenza dei ceki (traversa di Rosicki al 3′ con un bolide da fuori area e forte tiro di Jankulovski respinto da Nikolpolidis al 6′) segue una lunga battaglia a centrocampo con alterne vicende. I greci tentano di agire in contropiede ma si fermano sempre ai limiti dell’area.
Karagounis e Katsouranis (che è addetto alla marcatura di Nedved) tentano di movimentare il gioco. Rehhagel ha approntato una serie di marcature rigide: davanti a Dellas, Kapsis si occupa del gigantesco Koller (che con un colpo di testa al 19′ ha mandato la palla fra il portiere greco e la parte bassa della traversa), mentre lo scattante Baros è affidato a Seitaridis. Primo tempo movimentato, con i ceki più presenti sul fronte offensivo, ma con i greci sempre battaglieri, anche se poco incisivi.
All’inizio della ripresa il copione non cambia. I ceki sembrano perà risentire dell’uscita di Nedved avvenuta al 40′ del primo tempo per una botta al ginocchio. Dellas trattiere in area Koller al 9′ ma Collina non batte ciglio. Smicer si dà molto da fare, ma senza tirare, e Rosicki spara alto al 15′. Insomma Zeus protegge gli ellenici, ma non li manda in gol, nonostante si spingano in avanti: Cech deve intervenire un paio di volte uscendo dalla porta e parando su una girata di testa di Vryzas al 22′.
Un sinistro di Poborski al 24’dà solo l’impressione del gol: fuori. Dopo un triangolo con Rosicki, Koller tira fuori da favorevolissima occasione al 35′. Si va ai supplementari. Dopo le occasioni mancate da Charisteas, Koller e Dellas, il difensore della Roma centra il bersaglio di testa su calcio d’angolo segnando il gol decisivo e regalando alla Grecia un inatteso quanto meritato successo. La Repubblica Ceca è ancora una volta vittima di un gol nei supplementari come nel 1996 a Londra contro la Germania.
La rete di Traianos Dellas apre alla Grecia le porte della finalissima

FINALE: IL RITORNO DEGLI DEI

A Lisbona Scolari incrocia Rehagel. I favoritissimi lusitani contro i sorprendenti greci. Come previsto a partire in avanti è il Portogallo, ma la Grecia mostra subito il suo lato migliore: difesa attenta, marcature mirate e ottima capacità di interdizione. Rispetto alla partita con la Repubblica Ceca il controllo degli uomini di Rehhagel è rigoroso su Pauleta (preso in consegna da Kapsis), Figo e Cristiano Ronaldo (bloccati da Seitaridis e Fyssas a seconda della fascia in cui si incanalano, un po’ meno sugli altri portoghesi. Ne risulta una partita un po’ più aperta, anche se le occasioni tardano ad arrivare. Al 13′ è Miguel a tentare la prima conclusione da destra, ma Nikopolidis si allunga e devia in angolo.
La pressione si manifesta col possesso di palla e con il baricentro del gioco che nella prima mezz’ora è spostato nella metà campo greca. Mancano le finalizzazioni (Maniche al 24′ ci prova da fuori) e con il passare dei minuti cresce la Grecia. L’ultimo quarto d’ora del primo tempo è di marca ellenica anche se pure su questo fronte a mancare è la penetrazione negli ultimi 16 metri. Si va al riposo sullo 0-0 e con una brutta notizia per Felipe Scolari, costretto a sostituire Miguel, infortunato, con Paulo Ferriera.
Inizia la ripresa e il Portogallo ricomincia a imprimere il suo ritmo alla partita e in parte di ci riesce. La Grecia soffre l’aumento di velocità, comincia a commettere errori a centrocampo e a perdere palloni anche in difesa. Ma a mancare è sempre la precisione in avanti. Quella che non manca alla Grecia, che alla prima occasione buona, un calcio d’angolo di Basinas al 12′, passa in vantaggio grazie a un gran colpo di testa di Charisteas che sovrasta Jorge Andrade. Scolari toglie Costinha e manda in campo al suo posto Rui Costa, Il milanista si fa subito notare per una bella discesa sulla destra, ma il suo pallone vaga in mezzo all’area. Però la spinta portoghese cresce.
Greci in affanno, ma pericolosi al 20′ quando Zagorakis scucchiaia un pallone in mezzo all’area per Giannakopulos che però si fa anticipare. E’ un episodio, il Portogallo preme, soprattutto sulla destra dove spesso riesce a sfondare. Al 29′ nuova mossa di Scolari che toglie l’infruttuoso Pauleta e inserisce Nuno Gomes. Al 30′ Cristiano Ronaldo spreca un’occasione clamorosa: pescato con un pallonetto sul filo del fuorigioco entra in area solo di fronte a Nikopolidis, ma il suo tiro è fuori misura.
Un minuto più tardi Rehhagel inserisce Venetidis per Giannakopulos e comincia a costruire un fortino difensivo per l’ultimo quarto d’ora di gioco. Al 36′ nella mischia anche Papadopulos, per Vryzas, ma il Portogallo va vicino al pareggio con Ricardo Carvalho che con una botta da sinistra impegna Nikopolidis. E’ l’ultimo lampo assieme a una girata di Figo al 90′ che termina a fil di palo (se si eccettua l’invasione di campo di un tifoso del Barcellona terminata dentro la rete difesa da Nikopolidis che ha fatto terminare l’incontro con 5′ di recupero). Poi il fischio finale. La favola greca è giunta al suo compimento, mentre il sogno portoghese si è trasformato in un incubo che difficilmente potrà essere dimenticato.

venerdì 3 febbraio 2017

Leggenda metropolitana nello spogliatoio del Milan stellare di Sacchi-Capello

Secondo il gossip l'indimenticabile campione del Milan sarebbe al centro di un clamoroso intrigo sentimentale. Forse è solo una leggenda metropolitana, ma a distanza di tanti anni – quasi venti – rimane un peso, fastidioso e ingombrante, nella vita di uno storico campione del Milan. Parliamo di Franco Baresi e della storia di un figlio che non sarebbe il suo. Baresi, da giovanissimo, ha sposato Maura Lari. Nel 1991 la coppia ha avuto un primo figlio, Edoardo e nel 1997 ha adottato un bambino a cui viene dato il nome di Giannandrea Il capitano e bandiera del Milan ha i capelli chiari e gli occhi azzurri e sua moglie, una bella donna, è anch'ella bionda e con gli occhi azzurri. Prima di avere il primo figlio, la moglie Maura ha dovuto sopportare numerose gravidanze interrotte. L’origine di questa chiacchieratissima vicenda sta nel fatto che il primogenito Edoardo, nato a Città del Messico il 26 gennaio 1991, ha un incarnato piuttosto scuro ed è moro.
Nel 1993 Frank Rijkaard, centrocampista e asso del Milan dal 1988, uno dei tre tulipani con Gullit e Van Basten delle formidabili squadre messe in campo da Sacchi e poi Capello, viene inspiegabilmente venduto, allontanato. Ceduto nonostante fosse ancora in forma e ormai una bandiera della squadra.
Da allora sono cominciate a circolare insistenti voci. Rijkaard sarebbe stato allontanato dal Milan perché avrebbe avuto una relazione con la moglie di Baresi e il figlio di carnagione scura, ne sarebbe la prova. La società ha preso subito posizione. Galliani e Berlusconi sarebbero stati a fianco del capitano Baresi, e Rijkaard sarebbe stato venduto di fretta e furia. Si parla anche di una rissa avvenuta egli spogliatoi tra i due.
“Piccoli, miserabili attacchi sono cominciati pochi mesi dopo”, dirà Maura Lari. “Mi hanno riportato tutto, sempre, non mi hanno risparmiato. Comprese le cose che Franco non mi diceva, gli striscioni allo stadio e i cori dei tifosi avversari. In un mondo, quello del tifo, dove tutto è permesso, dove si picchiano e si ammazzano, speravo nel rispetto della maternità, soprattutto quando è stata sofferta come la mia”.
La storia è tornata in auge ai tempi di George Weah in rossonero (1995-2000) grazie a un coro dei tifosi interisti che diceva ogni domenica sui campi da gioco della Serie A: «È arrivato Weah, è arrivato Weah, e Baresi è di nuovo papà!». In quel caso si disse di una conoscenza tra il bomber liberiano e sempre la moglie di Baresi.
Nel Gennaio 1997 i coniugi Baresi hanno deciso di adottare un bambino russo, nato a Mosca due anni prima. L’hanno battezzato Gianandrea.
C’è, comunque, un’altra versione, che salverebbe Baresi dal tradimento. La moglie sarebbe sterile e i due avrebbero adottato un bambino mulatto.
Infine, altri sostengono che lo sterile sarebbe Baresi e sapendo ciò avrebbe addirittura chiesto a un suo compagno di squadra di ingravidare la moglie. La scelta sarebbe caduta sul più muscoloso e dotato non solo fisicamente, cioè Rijikard. Dicono che il giocatore in realtà sia stato Gullit e non Rijkaard. Tra l’altro anche Gullit fu protagonista di strane vendite: prima andò alla Sampdoria, poi tornò al Milan e fu di venduto dopo nemmeno due mesi.
Qualunque sia la verità, i tifosi del Milan ricordano ancora oggi Franco Baresi, idolo indimenticato della società rossonera e uomo di importanti valori in un calcio stellare che adesso sembra lontano anni luce.